·
State abbandonando il sito web di Lundbeck Italia S.p.A. e vi state dirigendo ad un altro sito. Qualora il sito di atterraggio appartenga al Gruppo Lundbeck, vi informiamo che Lundbeck Italia S.p.A. non ne ha alcun controllo. Qualora il sito di atterraggio non appartenga al Gruppo Lundbeck, vi informiamo che Lundbeck Italia S.p.A. non risponde dell’attendibilità né della correttezza né della conformità alle disposizioni legislative e regolatorie applicabili in Italia dei contenuti di tale sito, declinando ogni responsabilità rispetto a quanto offerto all’interno dello stesso.
Gli occhi la seguono, fissi
Una bimba impaurita può trovare rifugio in un mondo immaginario. Come Ditte Grauen Larsen, che oggi ha 26 anni. Ma può anche scoprire un universo dove le foglie degli alberi hanno occhi che la guardano e dove la realtà scivolavia come una pista da pattinaggio su ghiaccio.
Qualcuno borbotta fra sé e sé sull’autobus. "Che sia ubriaco? O magari pazzo? Chiunque nota una persona del genere già da lontano", dice Ditte, "distoglie rapidamente lo sguardo e si siede da un’altra parte". Ai tempi della scuola, Ditte aveva spesso l’impressione che i suoi compagni di classe la vedessero così. La ragazzina strana. Ancora oggi si chiede il perché. Quando guarda le sue foto dell’epoca, vede una ragazzina semplice con lunghi capelli, che non vuole farsi notare. Quella ragazzina sorride, ma il suo è un sorriso di facciata. Ditte era ancora piccola quando a sua madre fu diagnosticato un tumore cerebrale potenzialmente fatale e la paura che morisse la pose in uno stato di costante allerta. I suoi genitori divorziarono più o meno all’inizio della malattia della madre e Ditte trascorse tutta l’infanzia facendo del suo meglio per non dare preoccupazioni o problemi. Era così gentile e disponibile che sembrava quasi che non ci fosse e ogni tanto cercava di sparire del tutto. Spariva in un mondo magico di fiabe e fantasia, di quelli dove si potrebbe incontrare una famiglia di gnomi che vive sotto un ceppo in una foresta. In quel mondo, si vedeva come un elfo. E se un qualche adulto la spaventava con uno scatto di rabbia, era perché si trattava in realtà di un troll.
Dai 12 ai 16 anni, Ditte ha dovuto sopportare una particolare forma di agonia e come molte altre cose l’ha subita in silenzio. Poteva sembrare qualcosa di inoffensivo: ogni mattina prendeva l’autobus per andare a scuola e ogni pomeriggio per tornare a casa. Ma quel tragitto in autobus le mostrava tutta l’ampiezza del suo isolamento, due volte al giorno.
Oggi Ditte pensa che il suo io interiore si sia spezzato quando aveva 13 o 14 anni, proprio lì sullo scuolabus, molto prima che sopraggiungesse la sua malattia mentale. Rivede davanti a sé la Ditte quattordicenne sull’autobus: i “vincenti” siedono sul retro, i “perdenti” davanti. Ditte si è seduta nella prima fila della metà posteriore dell’autobus, sperando di essere presa meno in giro. L’autobus è stracolmo di studenti chiassosi, che ridono e urlano. Si stanno prendendo gioco di lei? Ditte ne è sicura. Il sedile vicino al suo è vuoto. E la Ditte adulta dice: “Nessuna fantasia può salvare quella ragazzina.”
Crescendo, Ditte ha cercato più e più volte di reinventarsi, di essere “una ragazza nuova e migliore”, adatta al mondo in cui viveva. Era instancabilmente ottimista e gradevole. Vestiva come le ragazze più apprezzate, sorrideva sempre, ma dietro a quella facciata il suo mondo interiore diventava sempre più forte. Sotto molti punti di vista, divenne molto più ricco e molto più divertente della sua vita quotidiana. Se si annoiava durante una lezione,riusciva a creare auto-allucinazioni e a trasformare da bianchi a viola i capelli del professore. Oppure la sua mente faceva apparire sulla cattedra un piccolo leone, che recitava una scena del film “Il re leone”. Ma poi, il suo mondo interiore iniziò a tracimare nel mondo reale, inun modo che Ditte non riusciva a controllare.
Un mare di pensieri ossessivi cominciò a tormentarla: ad esempio, una delle sue professoresse era una strega, e se la targa dello scuolabus conteneva le iniziali di quella strega Ditte si rifiutava di salirci. Oppure, indossava solo calzini spaiati, mai dello stesso colore. La tempesta nella mente di Ditte diventò sempre più devastante. Le canzoni che ascoltava durante il giorno si accumulavano e risuonavano simultaneamente, i pensieri turbinavano senza alcun soggetto o messa a fuoco. “Qualsiasi senso di orientamento svanì” spiega.
“Non riuscivo a concentrarmi su un unico pensiero, perché ce n’erano altri mille che avevano la stessa urgenza.”
Ditte Grauen Larsen
E semplici azioni potevano essere letali: salire sull’autobus della strega avrebbe ucciso sua madre, indossare calze di colori coordinati avrebbe ucciso sua madre. La vita della madre era tutta sulle sue spalle. Ditte iniziò ad assumere antidepressivi quando era alle superiori, ma i farmaci non cambiarono nulla nella sua realtà o nella sua lotta per tenerla segreta. “La mia facciata significava tutto per me”, dice oggi, “Usavo tutte le mie energie per mantenerla.”
Gli occhi non battevano le palpebre e la seguivano ovunque andasse. Ditte aveva la sensazione che volessero accertarsi che lei eseguisse correttamente le sue azioni compulsive. Gli occhi erano reali, come gli alberi e le foglie sugli alberi ed era proprio dalle foglie degli alberi che gli occhi la guardavano. Ditte non parlava degli occhi, perché forse era perfettamente normale vederli. Forse anche le altre persone li vedevano, e l’avrebbero giudicata debole perché a lei facevano paura.
Oppure avrebbero pensato che era pazza, e in quel caso di sicuro l’avrebbero internata e non sarebbe più uscita. In entrambi i casi, pensava, parlare era più pericoloso che tacere. Ditte aveva fatto un lungo percorso prima di arrivare nel luogo in cui le foglie-occhi la controllavano. Qualcosa dentro di lei si era crepato quando aveva all’incirca 14 anni e, dopo, le crepe erano scese in profondità. Si manifestarono sotto forma di ansia sociale, di depressione, di pensieri ossessivi e di autolesionismo, fino a deflagrare come psicosi. Era la fine del 2012. Ditte aveva 20 anni e lavorava in un supermercato.
Vari mesi prima, lo psicologo a cui si era rivolta le aveva consigliato di smettere con gli antidepressivi: doveva smettere tutto d’un colpo, le disse. Fu allora che apparirono le foglie-occhi. Ditte aveva promesso a sua madre di non farla mai ricoverare, e infatti non fu per lei che Ditte varcò la soglia di un ospedale: il locale centro di salute mentale proponeva un programma ambulatoriale per l’individuazione precoce delle psicosi e Ditte lo contattò. La prima seduta fu un punto di svolta per Ditte, le fecero subito iniziare il trattamento. La diagnosi angosciò molto sua madre, ma Ditte sentì che le avevano tolto un grande peso dalle spalle. Non era normale soffrire come aveva fatto lei, le persone sane non si sentono come si era sentita lei. Non si poteva chiederle di resistere ancora.
Oggi, cinque anni dopo quell’inverno, Ditte insegna in una scuola. Ha trovato dentro di sé dei punti a cui aggrapparsi ed è diventata una persona su cui gli altri fanno affidamento. Pensa che i suoi anni di silenzio le abbiano creato una gabbia intorno e che parlare apertamente della sua diagnosi possa liberarla. Ma quella sincerità non le evita di soffrire e i suoi punti vulnerabili sono spesso sotto minaccia. Quando divenne insegnante di terza media, la mamma di un alunno cercò il suo nome su Google e scoprì che aveva tenuto conferenze sulla sua schizofrenia. Allora quella mamma scrisse ai genitori degli altri studenti, dicendo che la nuova insegnante la rendeva estremamente ansiosa. “Mi sono spaventata” ricorda Ditte. “Tutti i genitori mi avrebbero respinta? Avrei perso il mio lavoro?”
Il suo primo impulso fu di tenere per sé quei pensieri. Ma dopo essersi confidata con un collega, andò a parlare con la preside e lei le disse di non pensarci più: era dalla sua parte. Ditte è consapevole di essere diversa dalle altre persone, visti suoi trascorsi. Ma il suo passato tumultuoso le ha anche dato capacità speciali: riconosce d’istinto l’umore degli altri, sa rilevare e interpretare variazioni anche minime nell’espressione del viso e ha una sensibilità potenziata nei confronti dei bambini con difficoltà psicologiche. Ditte si accorge se non è il bambino a sorridere, ma la sua maschera. Spesso un bambino così non sa cosa gli farebbe bene raccontare, ma Ditte sa come chiederglielo.
Una bambina che si guarda le mani invece di fare il pisolino. Fa finta che ogni dito sia una persona. È il primo ricordo di Ditte. Oggi è diventata una persona che ha studiato per fare l’insegnante, anche se i terapisti glielo avevano sconsigliato prevedendo un suo fallimento.
È diventata una persona che ottiene buoni risultati in un impegnativo lavoro full time. È diventata una persona che ha adottato un gattino abbandonato con una gravissima infezione oculare e lo ha visto diventare un robusto gattone, felicemente parte della sua piccola famiglia. E ora, nella sua vita sta per aprirsi un’altra porta. Ditte avrà un figlio dal suo ragazzo. Ha sempre voluto essere mamma e sa che tipo di madre sarà. Non proprio una casalinga modello, dice, ma:
“Sarò una di quelle mamme che costruiscono fortezze con lenzuola, cuscini e sedie. Sarò una che ad Halloween si traveste per andare in giro a fare dolcetto o scherzetto con suo figlio.”
Ditte Grauen Larsen
Il viso di Ditte trabocca di gioia mentre descrive quello che vede con la sua mente. È il suo vero volto e lei non ha paura di mostrarlo.